lunedì 31 dicembre 2012

Iveco, dove c'è un bambino


Pensierini di fine anno:
Perchè i marciapiedi sono costantemente ostruiti da signore che manovrano, con difficoltà e buone dosi di imperizia, passeggini somiglianti a camion, tra petulamenti telefonici, svagatezze varie ed impacci reciproci con gli altri viandanti ?
I bambini che nascono oggi non dovrebbero essere statisticamente più grossi di quelli che qualche anno fa si godevano (mediocremente consenzienti) l'aria aperta in carrozzine di dimensioni ragionevoli ed essenziali, con la stessa espressione di totale indifferenza alle dimensioni del proprio veicolo; e non risultano effetti traumatici sulle personalità degli adulti da ristrettezze degli abitacoli infantili.
O forse adesso rimangono nei passeggini fino a 11-12 anni ?
I bambini che nascono oggi sono talmente pochi e preziosi da doverli custodire in carrozzelle con triplo airbag, o si tratta della solita prepotenza occupatoria che aveva spinto i genitori ad invadere lo spazio viario con i SUV ?
Almeno per i modelli più ingombranti, si potrebbe ipotizzare una patente (a punti ?) da ottenersi previo apposito corso in parallelo a quello pre-parto, con indicazione delle strategie di comportamento più elementari per non amputare caviglie ai passanti, non rimanere impigliati nelle recinzioni, ed affrontare i gradini senza l'intervento della Protezione Civile ?
E se i Comuni concordassero di allargare i marciapiedi, si allargherebbero immediatamente anche i passeggini ?

domenica 30 dicembre 2012

Ultima (e pericolante) conoscenza


Abbiamo presentato all'inizio dell'anno la prima nuova specie di Primate scoperta nel 2012, e vorrei approssimarmi alla chiusura in modo analogo: l'ultima specie di Primate che si è aggiunta, in dicembre, al breve elenco (poche centinaia) delle specie di questo nostro minuscolo ramoscello dell'albero genealogico di viventi, un nitticebo del Borneo indonesiano battezzato Nycticebus kayan. E' caratterizzato dall'avere due lingue e, caratteristica rarissima tra i mammiferi, morso velenoso. Praticamente una suocera.
Manco a dirlo, lo scopriamo già a rischio di estinzione per la continua riduzione e frammentazione degli habitat forestali in cui vive. Buona fortuna anche a lui.

Se poi volete consultare una guida completa delle (tante) specie di Primati in pericolo, la trovate qui.

giovedì 20 dicembre 2012

Corto Circuito


Se ci vuole un attore comico per ricordarci i principi fondamentali della nostra Costituzione, vuol dire che siamo ridotti piuttosto male come coscienza civile: decenni di rimbecillimento sistematico della popolazione hanno prodotto i loro effetti. Dobbiamo dire grazie a Benigni e meno male che esiste. Dio solo sa quanto ne avevamo bisogno - no, no, io non posso proprio esprimermi cosi - ehm... il Presidente solo sa quanto ne avevamo bisogno.
La nostra Costituzione è molto bella e moderna non solo perchè è - lapalissianamente - storicamente piuttosto recente, ma anche perchè il momento di uscita dal buio della dittatura e della sopraffazione favorisce visioni aperte e solidali del futuro, pur nel panorama contingente di macerie materiali e morali.
La nostra Costituzione è certamente meno pervasa di individualismo di quella degli Stati Uniti, ideata da conquistatori e coloni ancora in piena fase di avanzamento e di spoliazione delle popolazioni autoctone, ed anche molto più antica, essendo stata scritta nel 1787, quindi addirittura prima della Rivoluzione Francese. E' in vigore proprio dall'anno fatidico 1789, e da allora emendata solo 27 volte, le prime 10 nei primi due anni (1791).
I primi dieci emendamenti sono raggruppati nella cosiddetta "Dichiarazione dei Diritti".
Il secondo emendamento è quello che conferisce al possedere armi il rango di un diritto inviolabile della persona, come quello al voto o alla libertà di espressione (per la verità se tale diritto debba considerarsi tale per qualsiasi privato cittadino è stato oggetto di controversie fino a tempi molto recenti).

Non ho fatto ricerche storiche approfondite su questo aspetto della vita sociale ma, a lume di naso, immagino che il circolare armati sia stato un uso generale in ambienti umani privi di regole precise di convivenza, e che sia stata una delle prime cose che venivano regolamentate appena le collettività si strutturavano in un'organizzazione sociale con una qualsiasi forma di legge.
Via via che le società umane si organizzavano, la facoltà di disporre di armi (almeno negli spazi pubblici) sarà stata riservata alle categorie militari o preposte al mantenimento dell'ordine.
Mi figuro anche che il diritto alle armi si sia poi facilmente trasformato in una forma di riconoscimento per il rango sociale delle persone: nell'Occidente cristiano, viene da pensare alla forma medioevale della Cavalleria: l'arma nelle mani del nobile animo per la difesa della Giustizia e della Religione (che è pari pari, nel ventunesimo secolo, ciò che ha esitato quel gentiluomo norvegese di nome Breivik).
Se si traspongono questi principi medioevali nel contesto americano della frontiera e dei religiosissimi coloni che fronteggiavano le popolazioni autoctone facilmente dequalificabili come "selvagge", ecco che mi risulta abbastanza comprensibile quel maldestro tentativo egualitario di fine '700, che amplia il diritto alle armi a tutti i cittadini (intesi come europei bianchi), e finisce per emancipare le armi anzichè le persone.
Il secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti è un pò un corto circuito tra le modalità di autodifesa in assenza di legge, e la legge stessa che le sancisce come diritto proclamando al propria inutilità.

Ma una volta che le armi sono un diritto, diventano anche una merce di largo consumo e quindi un business. Non a caso nel 2002 ci fu un tentativo, poi abortito, del secondo Governo Berlusconi per nominare ambasciatore negli U.S.A. nientepopodimenoche il signor Beretta.
La National Rifle Association è l'organizzazione di avvocatura dei possessori di armi, potentissima negli Stati Uniti e ricca di parlamentari amici soprattutto tra i repubblicani, ma anche tra i democratici. Ha ovviamente un sito internet, che tengo d'occhio da qualche giorno. Io ho spesso la sensazione di scrivere troppo poco, ma c'è chi è più pigro di me.
Il terzultimo post risale alla fine di ottobre ed invita tutti gli associati ad impegnarsi a fondo nella campagna elettorale, perchè "un'eventuale successo di Obama potrebbe mettere a rischio il nostro diritto a possedere armi".
Il penultimo risale a fine novembre e si gloria dei risultati di uno studio dell'Università della Virginia che attesta che, nel quinquennio 2006-2011, i crimini violenti in Virginia sono diminuiti del 27 % a fronte di un incremento nelle vendite di armi nello stesso periodo del 73 %. Osservo che manca un qualsiasi raffronto con quanto diminuiscono i crimini in un qualsiasi Stato in cui la vendita di armi sia diminuita o non aumentata.
Approfondendo, ho rilevato con qualche disgusto che il nocciolo del ragionamento sarebbe che i criminali le armi le comprano comunque, quindi se ci armiamo anche noi "persone normali", abbiamo maggiori possibilità di fronteggiarli. Come se si trattasse di due specie diverse.
Osservo anche che nelle più grandi nazioni europee il tasso di omicidi volontari varia intorno a 1 - 2 /anno per 100mila abitanti e, tanto per sfatare qualche luogo comune, il primato è della Svezia; mentre l'Italia, con mafia, camorra, 'ndrangheta e leghisti che invitano a bruciare gli zingari, ha uno dei tassi di omicidi più basso: 1,1 - 1,2 per 100mila abitanti all'anno. Mentre gli armatissimi Stati Uniti viaggiano intorno a 5 omicidi per 100mila abitanti all'anno.
E infine, dopo giorni e giorni di imbarazzato silenzio, il 18 dicembre la NRA ha pubblicato la sua dichiarazione di stizzito silenzio, rimandando ogni commento ad una conferenza stampa da tenersi domani, sperabilmente dopo la fine del mondo.

giovedì 6 dicembre 2012

Ciurma, è finito il sushi


Per il cuoco, l'aragosta è pesce. In realtà, avrebbe molta più ragione l'aragosta a chiamare pesce il cuoco, poichè, come Vertebrato, egli è molto più strettamente affine ai naselli che avrebbero potuto finire in pentola, in contingenze situazionali alternative che sarebbero state all'aragosta molto gradite, al posto del prelibato Crostaceo, il quale, come Artropode, ha invece qualche parentela con lo scarafaggio testè schiacciato col mestolo, con gesto elegante e fulmineo, dallo chef di classe sopraffina.

Come si vede, quello della pesca è un mondo che va un pò all'incontrario, e infatti, per capire come stanno andando a finire i pesci, converrà iniziare a parlare di mucche.
William Forster Lloyd, matematico dilettante, raffigurò in un pamphlet nel 1833 (1), il seguente scenario: un pascolo comune, a cui possono liberamente accedere, con le loro mucche, tutti i mandriani di un villaggio.
Che cosa succede quando si raggiunge il limite del numero di mucche che quel pascolo può sostentare ?
Se si supera tale limite, il pascolo diventerà sovrasfruttato, l'erba verrà mangiata più velocemente di quanto possa crescere, e peggiorerà la qualità dell'alimentazione di tutti gli animali. Ogni mandriano che si trovi nella possibilità di acquisire una mucca in più si domanderà che cosa gli conviene fare.
Il beneficio di avere una mucca in più sarà tutto suo, mentre il danno del deterioramento del pascolo sarà ripartito fra tutti. Allo stesso modo ragioneranno da uomini razionali tutti gli altri mandriani, e sebbene tutti siano consapevoli di rovinare il pascolo comune, e privarsi così della risorsa fondamentale per la propria sussistenza, non avranno dubbi nell'approfittare dell'opportunità di avere un maggiore profitto.
Il tema fu ripreso da Garrett Hardin nel 1968, in un classico degli albori dell'ecologia, "La tragedia dei beni comuni" (2). Come si può risolvere il dilemma tra massima convenienza personale immediata e conservazione delle risorse che la generano ? Secondo Hardin la questione è "tecnicamente priva di soluzione".
Una delle possibilità più intuitive è quella di suddividere il pascolo comune in tanti appezzamenti, ed ogni mandriano si gestirà il suo come meglio crede: in sostanza: privatizzazione. Ma non tutti i beni comuni possono essere gestiti così.
Si può suddividere un fiume in tanti segmenti gestiti da singoli privati, ma chi sversa rifiuti non inquina il suo pezzettino, ma tutti gli altri a valle.
L'aria non si può recintare, e l'acqua delle falde sotterranee può avere comunicazioni e provenienze quasi imperscrutabili: chi sporca qui, fa danno di là. E come si può lottizzare e privatizzare a beneficio di pochi l'accesso a beni indispensabili per la sopravvivenza di ciascuno ? Memento per il referendum sull'acqua potabile dello scorso anno.

Una possibilità alternativa è quella di una rigida regolamentazione dell'utilizzo dei beni comuni.
In Italia ne abbiamo molti esempi, le comunità locali hanno saputo darsi regole rigorose per la gestione sostenibile delle risorse ed evitare il sovrasfruttamento: dal pascolo al taglio dei boschi, molti di questi regolamenti locali hanno funzionato perfettamente per secoli.
Qualche problema in più si pone oggi, con le risorse per generare profitto che si posssono andare a prendere dall'altra parte del mondo, e i Paesi che, ad esempio, hanno devastato i propri territori in nome dello sviluppo industriale possono sfacciatamente estorcere per quattro soldi terre da coltivare in Africa.

Le risorse ittiche e gli sgangherati e maldestri tentativi di regolarne lo sfruttamento sono una sintesi abbastanza completa della tragedia dei beni comuni.
Il pescabile può essere assoggetato a regole e ripartizioni nelle acque territoriali degli Stati mentre, libero negli oceani, è un bene comune accessibile a tutti.
E il dilemma equivalente all'aggiungere una mucca in più nel pascolo è quello di pescare un pesce in più rispetto alla capacità riproduttiva della popolazione. Sebbene ciascun pescatore sappia di depauperare ed erodere irrimediabilmente la propria fonte di sussistenza, nessuno rinuncerà a pescare di più.

Guardiamo più da vicino.
La pesca artigianale, su piccola scala locale, ha scarto pressochè zero (praticamente tutto il pescato viene venduto o comunque utilizzato), e storicamente ha fornito buona parte dell'apporto proteico nell'alimentazione di molti paesi del sud del mondo, in Africa e in Asia; e inoltre ha offerto preziose alternative per l'approvvigionamento di cibo in aree colpite da siccità che mettono in ginocchio l'economia agricola e pastorale, come più volte è avvenuto nel Corno d'Africa negli ultimi decenni, ad esempio.
Ma oggi si aggirano per i mari enormi pescherecci che sono delle vere industrie galleggianti di Europa, Giappone, Russia, Corea del Sud e ormai anche Cina, che tirano su in una notte quello che i piccoli pescatori locali catturano in un anno. Come se non bastasse, nella pesca industriale più della metà, se non i due terzi, del pescato è considerato scarto e viene gettato via perchè di valore commerciale insufficiente.
Come risultato, attualmente si cattura due volte e mezzo quanto le specie pescate siano in grado di riprodurre. Negli ultimi vent'anni, la biomassa complessiva del merluzzo in Africa Occidentale è diminuita dell'80% e quella dello sgombro nel Pacifico meridionale addirittura del 90%. Queste rilevazioni si sono fatte più attente dopo lo shock subito dai canadesi di Terranova negli anni '70. L'isola di Terranova viveva principalmente della pesca e dell'industria del merluzzo: aveva qualcosa come 20 impianti per la produzione di olio di fegato di merluzzo (argh !). Da 400 anni o più i pescatori baschi e bretoni si spingevano fino all'estremità nordoccidentale dell'Atlantico per attingere a quegli imponenti banchi che già avevano imparato a conoscere.
Con il popolamento europeo di Terranova, la pesca del merluzzo divenne sempre più fiorente: da 100mila esemplari all'anno nel '700, le magnifiche sorti e progressive portarono il prelievo a 300mila tonnellate all'anno a metà del '900, nella felice idea che le risorse marine fossero pressochè illimitate, fino a 800mila tonnellate a fine anni '60, nel crescendo di ricchezza e floridità che doveva essere ineluttabile. Poi basta. I grandi banchi di merluzzi di Terranova, dagli anni '70 sono scomparsi. Esauriti. Finiti. Chiuse le fabbriche di olio di fegato (tiè !). Dal 1992 vige una moratoria, nell'ulteriore felice idea che basti smettere di pescare per un pò perchè i pesci ritornino. Ma drastiche alterazioni nelle catene alimentari hanno di solito effetti irreversibili. Oggi la sussistenza dell'isola volge le spalle al mare e guarda verso i boschi dell'entroterra per la produzione di carta, perchè i merluzzi non sono mai tornati.
Ebbene, oggi che sappiamo per certo che le risorse dei mari non sono affatto inesauribili, e che il sovrasfruttamento le depaupera irrimediabilmente, come ci comportiamo, forti di tale consapevolezza ?
Peschiamo sempre più intensivamente.

L'Unione Europea, tra i principali responsabili del sovrasfruttamento, applica da 40 anni una politica basata sulle quote, analoga a quella per l'agricoltura. Ma i totali di prelievo ammessi sono più alti di circa il 50% rispetto a quanto raccomandato dagli scienziati, e per di più i controlli chiudono un occhio, e ancor più volentieri tutti e due, sugli sforamenti.
Tra le misure previste per arginare il futuro collasso del settore, prevale, manco a dirlo, quella più liberista: l'equivalente della lottizzazione e privatizzazione.
Concessioni di pesca trasferibili, cioè quote che i pescatori potranno rivendere. L'esito più ovvio è che queste finiranno per concentrarsi nelle mani di pochi colossi industriali man mano che i piccoli pescatori artigianali getteranno la spugna; vale a dire che si favorisce la pratica più dannosa a spese di quella più rispettosa per la risorsa che si vorrebbe salvaguardare.
Ma noi abbiamo sempre qualcuno su cui scaricare i disastri della nostra avidità: il sud del mondo.
Dal 1979, l'Unione Europea stipula accordi di partnerariato con una quindicina di Paesi di Africa, Caraibi, Pacifico, con i quali noi, nella nostra infinita generosità, incentiviamo lo sviluppo della loro Pesca.
Funzionano grossomodo così: in cambio di un pò di soldi ai Governi di tali Paesi (e senza troppe preoccupazioni nè su come i fondi verranno impiegati nè su come tali Governi detengano il potere), gli Europei acquisiscono concessioni di pesca per quantità ben definite che tanto nessuno sarà mai in grado di controllare. E le grandi navi della nostra pesca industriale vanno a fare concorrenza ed impoveriscono i piccoli pescatori locali. Niente male come incentivo allo sviluppo.
Ma può anche andare peggio. Dove lo Stato si è di fatto dissolto, in Somalia, gli Europei pescano su scala industriale senza alcuna licenza, o con permessi fasulli dei vari signorotti e feudatari delle mafie locali.
Da anni sentiamo parlare dei "pirati somali" e delle loro imprese ai danni dei commerci occidentali, e forse ci ha affascinato l'idea romantica che all'alba del ventunesimo secolo potessero ancora esistere i pirati, come da fumettone eroico, anche se magari lo stereotipo sarà ormai orfano dei gadget più folkloristici, quali gambe di legno, protesi uncinate e bandiere nere con teschio e tibie.
E da dove saranno mai spuntati fuori, i pirati in Somalia ?
Per la maggior parte sono ex-pescatori, a cui la pesca industriale condotta indiscriminatamente da Europei e Giapponesi ha sottratto i mezzi di sussistenza, e che si sono riconvertiti nella pirateria per sopravvivere e per difendere le loro coste.
Dal 2008, l'Unione Europea difende i traffici marittimi nella zona con l'operazione "Atalanta" (150 milioni di Euro l'anno), che impegna incrociatori ed aerei da pattugliamento per prevenire gli attacchi dei pirati.
Già che sono lì, le marine militari europee interverranno anche a contrastare la pesca industriale illegale ? Purtroppo no: "non fa parte del mandato" (3).

(1) W.F. Lloyd, Two Lectures on the Checks to Population (Oxford University Press), 1833

(2) G. Hardin, The Tragedy of the Commons (Science, 13, Vol. 162, N.3859, pagg. 1243-1248), 1968

(3) Jean-Sébastien Mora, Le devastazioni della pesca industriale in Africa (Le monde diplomatique, novembre 2012, pagg. 10-11)

lunedì 3 dicembre 2012

A tutto gas - serra

In questa pagina della rivista Nature trovate l'utilizzo delle risorse energetiche dei principali Paesi consumatori, suddiviso per fonti, in diversi istogrammi: carbone, petrolio, gas, nucleare, idroelettrico/rinnovabili. Per passare da un istogramma all'altro basta "cliccare" sul simbolino della fonte energetica in alto.
Per tutti i grafici l'unità di misura è l'equivalente energetico del milione di tonnellate di petrolio.
I dati sono quelli relativi al 2011.
La triste conclusione è che il Protocollo di Kyoto è diventato obsoleto restando irraggiungibile.